Banche, lotta all'ultimo cliente

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L’aria che tira in filiale, come abbiamo raccontato a inizio anno su queste colonne, non è delle migliori. Il ceto bancario, inteso in questo caso come quel popolo di 300.000 lavoratori sopravvissuti nelle circa 400 banche italiane, ha da tempo fiutato il vento e attende con ansia una nuova ristrutturazione del settore. Sulla carta sono già pianificati 23.000 esuberi, ma è proprio di questi giorni l’indiscrezione che l’Abi, la Confidustria degli istituti di credito, stia trattando con il Governo una maggiore flessibilità in uscita. L’altro ieri i giornali italiani hanno ripreso dal ‘Financial Times’ una dichiarazione di Davide Serra, sulla necessità di un nuovo consolidamento: «in Italia ci sono più banche che pizzerie» ha chiosato il finanziere genovese. Il settore bancario è in piena trasformazione e gli interventi a suo sostegno in questi ultimi anni sono stati continui. Il ridimensionamento va avanti da otto anni, con un taglio di 40.000 dipendenti (-12,2%) e una chiusura di circa 3.500 sportelli (-10,1%), secondo i dati della Bce.

Col prossimo round di fusioni auspicato da Serra i nuovi esuberi già sulla carta potrebbero gonfiarsi di un ulteriore 50%. Che faranno queste 30.000 persone in libera uscita nei prossimi anni? Una lunga fila di operatori costretti, seppur con laute buonuscite, a metter via la propria roba negli scatoloni, come in una silenziosa Lehman Brothers italiana diluita nel tempo, che nessuna foto iconica potrà catturare. La domanda non meno importante da porsi però, è cosa dovranno fare le 270.000 persone che per ora rimarranno al lavoro. I grandi banchieri hanno lanciato vaticini abbastanza cupi negli ultimi mesi. «Silicon valley sta arrivando» ha scritto il gran capo di JP Morgan, Jamie Dimon, nella sua lettera agli azionisti di aprile 2015, «nulla sarà più come prima». Dong. Più pessimista Anthony Jenkins, ex numero uno di Barclays, che ha parlato di ‘uberizzazione della finanza’, ammonendo che la disintermediazione del cliente bancario potrà impattare sull’attività tradizionale «con una riduzione fino al 60% della profittabilità e non meno del 20%, fino a un massimo del 50% nei prossimi 10 anni, dei posti di lavoro». Dong. Uno scenario davvero apocalittico, che lascerà le banche sotto assedio nel settore del procacciamento di capitali, iperregolato e sempre meno remunerativo; una situazione che difficilmente potrà essere accettata dagli azionisti. Dong. Uno scenario condiviso qualche mese fa anche da Ennio Doris, che fin dall’inizio della sua avventura bancaria ‘differente’, puntò su una struttura leggera e sul ‘porta a porta’ dei family bankers. «Il numero degli addetti è destinato a scendere. Il lavoro umano resterà per le operazioni più complesse, quelle per le quali anche i millennials vogliono parlare con qualcuno» è convinto il settantacinquenne atipico banchiere padovano. Dong. Rintocchi funebri di una campana, che è abbastanza inutile chiedersi per chi stia suonando, visto ciò che è accaduto agli altri settori delle telecomunicazioni, dell’editoria e dei trasporti, tutti scardinati dai processi di disintermediazione, resi possibili dall’innovazione.

Screenshot 2016-03-31 07.57.45Intanto, fuori dalle mura della cittadella bancaria, si comincia ad udire il clangore delle 12.000 start-up censite da McKinsey ad agosto 2015, capaci di combinare le nuove tecnologie, sempre più economiche e alla portata di tutti, con i tanti processi finanziari, che il più delle volte sono imbrigliati in strutture poco flessibili alle richieste dei nuovi consumatori e vincolati ad obblighi di conformità altrettanto stringenti. Negli ultimi 5 anni, secondo quanto riporta il Global Banking Annual Review 2015, queste ‘fintech’ hanno raccolto 23 miliardi di investimenti, di cui più della metà nel solo 2014. L’epicentro di quest’ultima ondata di innovazione naturalmente è negli Stati Uniti, ma anche l’Europa ha fatto registrare un +251% di investimenti, grazie al grande fermento di Regno Unito e Irlanda. A sostenere questa spinta, almeno in America, è il fattore demografico. Finita l’era dei baby boomers, i nativi degli anni ’50, che tra il 1984 e il 2007 coi loro portafogli hanno gonfiato il ROE delle banche fino al 13%, oggi le attività tipiche che gli istituti possono registrare in bilancio, offrono un ritorno sul capitale di appena il 6%. Le nuove generazioni, nate a cavallo del millennio, però stanno arrivando; sono oltre 125 milioni, tra nativi digitali e alfabetizzati informatici e sono fortemente aperti ai modelli di intermediazione innovativi (Uber, Airbandb e gli altri), altamente personalizzati e in grado di dare un accesso costante ad un livello di servizio, diverso dalla semplice fornitura di un prodotto. E’ proprio in questo comparto di ‘origination and sales’, che le banche si sono accorte della possibilità di realizzare il 60% della loro futura profittabilità e portarsi a casa grazie alle commissioni un ROE del 22%. E’ qui il fronte più caldo, la lotta per la conquista di nuovi clienti. Cercare di realizzare l’innovazione vincente nel rapporto col pubblico resta comunque molto impegnativo, perciò le banche ci vanno con i piedi di piombo, pur sapendo che senza studiare nessuna contromossa, dopo l’assalto al settore dei pagamenti, toccherà anche al credito al consumo, ai mutui, ai prestiti alle Pmi e al risparmio gestito. Vero è che per una PayPal che ha sfondato nel campo delle transazioni sicure su internet, ottenendo l’anno scorso una quotazione al Nasdaq di 50 miliardi di dollari, ci sono mille nuove start-up che si perdono per strada, ma forse questa volta qualcosa sta cambiando.

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