Giorgio Canali: musica rimasta nella testa e nel cuore

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Giorgio Canali è un personaggio autorevole della musica italiana indipendente, e non solo di quella. Cominciò la sua carriera come tecnico del suono di band come PFM, Litfiba e CCCP – Fedeli alla linea, entrando poi a far parte di questi ultimi come chitarrista nel 1989, rimanendo nella band fino al suo scioglimento, e partecipando anche alle sue due successive reincarnazioni, CSI e PGR. Ha vissuto a lungo in Francia, dove ha iniziato per la band Corman & Tuscadu un’attività di produttore discografico, che ha proseguito con artisti come i Verdena, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica. Nel 1998 ha realizzato il suo primo album solista, ‘Che fine ha fatto Lazlotòz’, e nel 2002 ha fondato la propria band, i Rossofuoco, con cui ha registrato diversi dischi. L’ultimo, ‘Perle per porci’, uscito di recente, è particolare, composto unicamente da canzoni di altri artisti. Di solito gli album di cover giocano sull’effetto nostalgia provocato da brani conosciuti, ma non in questo caso, dato che le canzoni scelte sono invece quasi tutte di band poco note, e hanno avuto una diffusione molto limitata, come per esempio ‘Gambe di Abebe’, singolo pubblicato nel 1984 dal gruppo triestino dei Luc Orient. Ne abbiamo discusso con lui.

 

Giorgio, come hai scelto i brani da inserire in questo album di cover?

Sono pezzi che non sono lì per caso. Sono brani che nel corso della mia vita, ormai bella lunga, mi hanno emozionato in qualche modo, al punto da rimanermi nella testa e nel cuore. Mi piacciono moltissimo, e all’interno della mia testolina portavano il cartellino: prima o poi questa canzone diventerà mia. Tutto lì.

Li avevi già suonati in precedenza?

Qualcuno mi è capitato di suonarlo, per esempio ‘Storie di ieri’ [da ‘Rimmel’ di Francesco de Gregori, N.d.r.], che ho suonato prima da solo e poi con i Rossofuoco. Credo che forse anche ‘Recall’ [dei Frigidaire Tango, N.d.r.] fosse già nei nostri concerti.

Che procedura hai seguito per creare le tue versioni di queste canzoni?

Per comporre e registrare tutti i nostri album abbiamo usato sempre lo stesso metodo, che si è dimostrato abbastanza valido: ci mettiamo lì, improvvisiamo, creiamo strutture ipotetiche di ipotetiche canzoni. Quando ce ne piace una la fissiamo, cominciamo a ripeterla in ciclo, poi cerchiamo un eventuale ritornello, un’apertura, e costruiamo delle canzoni fittizie, senza le parole, senza la melodia. A un certo punto io comincio a lavorarci sopra, e parole e melodia vengono fuori. In questo caso il metodo che abbiamo usato è all’incirca lo stesso, solo che gli accordi e le melodie c’erano già: bastava mettersi a lavorare e a far girare quegli accordi. Credo che l’album abbia un’evidente omogeneità grazie questo “suono Rossofuoco”: ci siamo messi a improvvisare, e abbiamo poi registrato quello che ci piaceva. È stato tutto molto veloce, in due giorni, due giorni e mezzo tutti i pezzi avevano già la forma giusta, e in poco più di due settimane l’album era completo e impacchettato.

Ci sono brani, come per esempio ‘Lacrimogeni’ di Le Luci della Centrale Elettrica, di cui sei stato produttore, che in pratica hai visto nascere. Hai sentito la necessità di distanziarti dalla versione originale? In questo caso, per esempio, la tua versione è molto più dilatata e “mossa” rispetto a quella originale di Vasco Brondi.

Come produttore il mio intervento è molto “leggero”: una canzone come ‘Lacrimogeni’ è stata realizzata così com’era, non c’è stato il mio zampino sulla struttura o sul modo di registrarla, come del resto per quasi tutti gli altri pezzi di quell’album. Molte delle canzoni di questo disco fanno parte della mia vita fisicamente. Per esempio il primo pezzo, quello dei Corman & Tuscadu, viene da un album che ho prodotto io nel ’90. Stessa cosa vale per ‘A.F.C.’ dei L’upo. Perciò, se vuoi, queste canzoni sono un po’ la storia della mia vita. Non c’è bisogno di allontanarsi dall’originale. Nel momento in cui una cosa la fai tu, in maniera tua, la fai già in maniera originale, non è come se riscrivessi due volte la stessa cosa.

Quando hai deciso di fare questo disco avevi già in mente tutti i brani, o alcuni li hai scelti in seguito?

L’idea è molto vecchia, viene dagli anni ’80, quando ho cominciato ad ascoltare cose che sapevo non sarebbero mai andate da nessuna parte, perché comunque l’attenzione di un certo tipo di pubblico, quello della musica “indipendente”, “laterale”, è comunque focalizzata spesso e volentieri solo sulle novità e sulle tendenze che le varie fanzine, periodici, trasmissioni radio, media in generale fanno brillare. Tutto quello che non è “di tendenza” spesso sparisce senza neppure essere notato. Mi sono trovato ad avere a che fare con cose che continuavano a emozionarmi, e nel tempo si sono sommate le une con le altre. Quando si è deciso a provare a registrare l’album le canzoni in realtà erano molte di più. Le abbiamo selezionate con un criterio semplicissimo: abbiamo tenuti quelle che potevano essere “rossocupizzate” in maniera più evidente, più facile.

Ci sono brani che avete registrato ma hai deciso di non inserire?

No. L’album è lungo, e non abbiamo cacciato via niente. Credo sia l’unico album dei Rossofuoco che supera i 45 minuti di durata, di quasi dieci minuti. Addirittura avremmo potuto accontentarci di dodici canzoni, ma ne abbiamo aggiunta un’altra a causa di Luca Martelli, il batterista, che è un po’ vanesio. Siccome la parte di batteria di ‘Luna Viola’ del Santo Niente è molto bella (è l’unico pezzo che avevamo già registrato in  precedenza, perché era uscito qualche anno fa in una compilation-omaggio dedicata al Santo Niente), Luca ha detto ‘non possiamo non metterla, non è mai uscita su un album nostro’, e quindi l’abbiamo inclusa. Insomma, siamo stati un po’ esagerati. Di materiale rimasto fuori non ce n’è.

csi